Platone ai tempi del virtuale: la rivoluzione di Matrix
A somiglianza di tutti i prodotti “rivoluzionari” di successo, però, il film era basato su un sapiente mix di novità e di tradizione. Non soltanto le sue referenze mitologiche e filosofiche – il mondo non esiste, l’uomo non possiede alcuna certezza di ciò che vede e crede – sono antichissime: più modernamente, il mito platonico secondo il quale siamo prigionieri in una caverna e non vediamo che ombre proiettate sulla parete rappresenta una buona metafora dello spettatore di cinema, seduto nella sala buia a guardare, ipnotizzato, forme semoventi.
Inoltre, Matrix è arrivato a coronamento di un lungo percorso tracciato all’interno della fantascienza, letteraria e cinematografica. Sulla pagina, tutto il filone delle macchine intelligenti e della realtà virtuale inaugurato da Philip Dick con la “Trilogia di Valis” (un imperscrutabile sistema intelligente, forse una macchina forse una formula) e proseguito con abbondanza di adepti nella letteratura cyberpunk di William Gibson, Bruce Sterling & Co. Sullo schermo, la saga di Terminator, iniziata vent’anni fa e conclusa, proprio in questa stagione, dal terzo episodio; ovviamente Blade Runner di Ridley Scott, Atto di forza di Paul Verhoeven più una pletora d’imitazioni, parodie e videogame.
Dunque, la realtà non esiste. La trilogia dei fratelli Wachowski lo afferma, lo ribadisce e lo rilancia di continuo, così da toglierci ogni volta l’illusione di avere afferrato qualcosa della dicotomia virtuale-reale, che nel mondo di Matrix non ha alcun senso. E qui va cercata, con tutta probabilità, la vera rivoluzione della trilogia; anche di Matrix Revolutions, che pure è un filmone roboante, strapieno di effetti visivi, grondante frasi retoriche: tutto fuorché una rivoluzione del linguaggio, insomma. La rivoluzione consiste nell’avere portato l’immateriale non solo nel racconto (la Matrice, il Deus ex Machina, il mondo come ombra di un sogno…), dove c’era già da tempo, ma negli stessi personaggi interpretati da Keanu Reeves e dagli altri attori.
Ai tempi della fantascienza ante-Matrix gli eroi erano terrestri solidi e in carne che combattevano contro cattivi venuti dallo spazio: marziani con dodici mani, magari di forma vegetale, oppure enormi insetti, ma tutti concreti e tangibili. Più tardi arrivarono androidi, cyborg e replicanti: pur essendo creature artificiali, possedevano un alto grado di fisicità, quando non manifestavano addirittura emozioni e sentimenti contendendone il monopolio agli umani. Perfino macchine ribelli e robot erano fatti di duro metallo.
Tutt’altra faccenda nella dimensione di Matrix. Qui il nemico, o l’alleato, è immateriale personificato: un programma (l’Uomo del treno, il Fabbricante di chiavi), un virus (l’agente Smith), una password (l’Oracolo). Non solo: lo stesso eroe Neo, che all’inizio credevamo un hacker, è “un’anomalia di sistema”. Una lotta di programmi contro programmi, insomma; una metafora epocale ben più forte di tutte le referenze “classiche” evocate dalla trilogia. Ecco perché fan della saga sono soprattutto i giovanissimi fruitori di computer e videogiochi, quelli per i quali l’opposizione tra immateriale e materiale sta diventando pura virtualità.